L’assalto di Ultima Generazione al ristorante di Carlo Cracco in Galleria Vittorio Emanuele a Milano ha fatto rumore. Gracco viene criticato perché è un simbolo, rappresenta la cucina di lusso “fine dining”, rappresenta dunque il vacuo, il più che offende tutti coloro che non possono neanche mangiare. L’eccessivo ostentare, un mondo dorato che viene ritenuto dagli attivisti in questo caso e non solo qualcosa di ingiustificato.
Il risotto allo zafferano di Carlo Cracco costa 48 euro, cosa che dinnanzi al reale costo del prodotto e della ricetta classica potrebbe fare sobbalzare. Ma quale è la differenza? La fattura del prodotto, la ricerca la modalità, la tecnica quindi il marchio dello chef, rendono lo stesso prodotto, la stessa ricetta realmente differente nel valore?
Molti diranno di sì, paragonando la cucina di Cracco e le cucine stellate ad opere d’arte. Nel mondo dell’arte una tela non costa milioni di euro, abbiamo visto pagare una banana milioni, e altri invece diranno che comunque ci vorrebbe misura.
Molte cucine stellate, ed è un fatto, sono in difficoltà, tranne alcuni casi di prenotazioni annuali, sia per i costi sia per il livello del prodotto che devono mantenere. Per molte location si pagano 30/40 mila euro di affitto al mese.
Come anche per il servizio di alto livello, in più anche la situazione contingente generale è abbastanza complessa e i costi di un conto da migliaia di euro, si sentono di più per la middle class rispetto al passato.
La giustificazione degli chef, lecita per carità, è che” se non vuoi venire o non puoi pagare ciò che ti chiedo, puoi andare da un’altra parte.
Qui la mia cucina è di alto livello, è una vera e propria esperienza sensoriale e costa tanto.”
Inoltre come detto, gli chef dicono che un affitto da 30.000 euro al mese, deve anche chiedere costi più alti per il cliente, come contropartita di aver scelto un locale di lusso.
In risposta a questa tesi assolutamente valida, molti storcono il naso dicendo che se è vero che l’opera d’arte della cucina di uno chef costa tanto, non si può arrivare a pagare una bottiglia d’acqua 20,00 euro, prodotto che in un supermercato costerebbe massimo 2,00 euro. Insomma è un cane che si morde la coda.
Questa irruzione nel locale di Cracco molti l’hanno dichiarata un atto populista, che non ha giustificazione e colpendo, Cracco che è un simbolo, di cucina di lusso, si è voluto colpire tutta la categoria.
E’ innegabile che sicuramente a differenza dell’arte, vi sia un legame in più, presente nel mondo dei ristoranti di lusso, tra business e alimentazione, che è un bene primario legato al sostentamento umano. Dunque vi è una componente con valenze che possono offendere la sensibilità di coloro i quali non possono arrivare neanche a fine mese.
Il tema è diventato dibattito, quasi sfida tra lotte di classe, un po’ come avviene per le borse delle grandi firme. E’ un fatto che l’insensibilità nel lusso è organica, infatti quest’ultimo ha una caratteristica necessaria per validarne l’esistenza, i due lati opposti di una stessa medaglia. L’esclusività da un lato, nel poterselo permettere, e/o l’emarginazione dall’altro per chi non si può permettere tanto, e in più potrebbe con meno di quei soldi campare per mesi.
A mio avviso occorrerebbe giudizio e comprensione, non si può pretendere dagli chef stellati di chiedere meno per i loro piatti o prodotti, addossandogli colpe di un sistema che non aiuta i più poveri o meno ricchi.
In questo caso pur trovando io stesso eccessivo spesso il costo richiesto, almeno su determinate tipologie di prodotto, comunque è vero che c’è un gran lavoro di ricerca, di studio, di creazione nel lavoro di uno chef stellato, come anche costi molto alti per mantenere il business.
In più si pretende spesso di poter giudicare il valore di qualcosa guardando la propria esperienza, il proprio vissuto. Molti per esempio non capiscono come un menu o piatto degustazione, che consisterebbe in un assaggio, paragonandolo a un piatto fatto a casa da sé, possa costare centinaia di euro, rimanendo oltretutto “morti di fame”, si dice così.
Pensano che quantità sia equivalente di bontà, piuttosto che esperienza degustativa rivolta alla sperimentazione sensoriale, traducendo ciò che è il bene in sazietà, nutrimento, sostentamento, dunque soddisfazione del senso della fame.
A mio avviso ciò dipende in gran parte dal fatto, che avendo in Italia una grande cucina regionale e nazionale, e avendo quest’ultima come anche il vestire, la moda, la musica, l’arte, il vino, radici profonde e antiche in ogni italiano, tutti si sentono in diritto di poter giudicare e avvilire un prodotto rispetto ad un altro.
In sintesi il concetto di cucina di lusso, occorre capire che non è legato al bisogno di nutrimento, è comprensibile la possibile critica, ma non credo sia giusto poter paragonare o accostare un piatto di grande fattura al problema dell’impossibilità di molti di poter mangiare.
Sono mondi diversi e paralleli, metto anche un ahimè solidale, empatico, ma de facto non sono accostabili.